Da una trentina d’anni, numerose pubblicazioni [1] hanno rivelato agli Occidentali un metodo di vita spirituale familiare ai cristiani d’Oriente, il cui momento principale è dato dall’invocazione ripetuta incessantemente: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!».
Motivatamente parliamo di metodo di vita spirituale: perché la Preghiera di Gesù non può essere considerata una semplice orazione giaculatoria paragonabile a quelle raccomandate dalla pietà cattolica, anche se il metodo occidentale delle “aspirazioni” possa collegarsi allo stesso filone tradizionale risalente ai Padri del deserto. Ma la Preghiera di Gesù è inseparabile da una dottrina di vita spirituale che i cristiani bizantini e slavi considerano volentieri il cuore dell’ortodossia: l’esicasmo [2]. Perciò, se si vuole cogliere il significato e la portata dell’invocazione del Nome di Gesù nella spiritualità ortodossa, è indispensabile conoscere le grandi linee di questa dottrina.
1. Le origini del metodo
La via esicasta poggia su un doppio fondamento: la dottrina della deificazione dell’uomo in Cristo, così come formulata dai Padri della Chiesa greca, e l’insegnamento pratico dei Padri del deserto sulla custodia del cuore e la preghiera continua.
Messi di fronte alle eresie trinitarie e cristologiche, i grandi vescovi e i teologi dell’Oriente elaborarono una dottrina che non era puramente speculativa, ma coinvolgeva profondamente una concezione del destino spirituale dell’uomo. Come ripeteranno instancabilmente di fronte ai negatori della consustanzialità del Verbo o delle due nature di Cristo, se il Verbo non è Dio, l’uomo non può essere divinizzato; se una natura umana integrale non è stata unita “senza separazione né confusione” alla natura divina in Cristo, l’uomo non può più essere salvato e divinizzato. Divinizzazione che veniva concepita in maniera estremamente realistica, non indubbiamente come unione ipostatica di ogni persona umana con l’essenza divina, ma come una compenetrazione vitale dell’agire increato di Dio, alla guisa e nel prolungamento della deificazione della natura umana di Cristo.
Le controversie cristologiche, conducendo i Padri a mettere in luce il ruolo soteriologico della carne di Cristo, ebbero altre due conseguenze, invero connesse. Da una parte, il pensiero bizantino, di fronte alle tendenze spiritualiste che il cristianesimo alessandrino aveva ereditato dall’ellenismo, prese sempre più coscienza che ad essere salvato è l’uomo nella sua interezza: la deificazione non è riservata solo all’anima, ma si estende pure al corpo, come manifestato dallo splendore corporale di Cristo sul Tabor. D’altra parte, fu più vivamente percepita l’importanza dei segni sacramentali e liturgici, che estendono sino a noi l’azione deificatrice della carne di Cristo. Le catechesi battesimali dei Padri ci trasmettono i primi echi di quella mistica sacramentale, che resterà una delle costanti della spiritualità orientale.
Negli ambienti monastici dei primi tempi, la dottrina della deificazione dell’uomo era pure presente, ma vi appariva sotto una luce un po’ diversa. Si metteva meno l’accento sulle basi cristologiche e sacramentali che sull’aspetto esperienziale. Il santo monaco, l’abba del deserto, era un uomo deificato, pneumatoforo, attraverso il quale la presenza dello Spirito nella creatura si manifestava visibilmente; nel segreto della preghiera, egli faceva l’esperienza di quella Presenza che trasfigurava il suo essere. Ma questa esperienza deificante richiedeva innanzitutto lunghi combattimenti di ascesi, la vigilanza del cuore, l’assiduità della preghiera. Era facile la tentazione di confondere la divinizzazione del cristiano mediante la grazia con l’esperienza mistica, cioè con le sue contraffazioni sottili o grossolane; misconoscere anche il valore insostituibile dei sacramenti, i cui effetti non sono immediatamente percepibili, e riconoscere efficacia solo allo sforzo ascetico, o tecniche di preghiera che favoriscono una esaltazione mistica di bassa lega. Il colmo fu superato nelle cerchie monastiche toccate dall’eresia messaliana, nella quale l’autentica esperienza della dolcezza di Dio sfiorava le aberrazioni più pericolose.
Toccò al lavoro dei maestri spirituali del V secolo – precisamente un Marco l’Eremita e un Diadoco di Fotica – cernere il buon grano dalla zizzania e formulare una dottrina in cui l’ autentica esperienza mistica, distinta dalle sue immaginarie contraffazioni, veniva riconosciuta come l’effusione normale della grazia battesimale, ma dove la vita sacramentale e liturgica veniva collocata alla base di tutta l’opera della salvezza.
Marco l’Eremita scrive:
«Coloro che sono stati battezzati in Cristo hanno ricevuto misticamente la grazia, ma essa opera in loro nella misura in cui essi compiono i comandamenti… Chi è stato battezzato nella fede ortodossa ha ricevuto misticamente tutta la grazia. Ma ne ha la certezza soltanto dopo, praticando i comandamenti». [3]
La “certezza” (pleroforia), l’ “opera” della grazia, indicano qui l’aspetto esperienziale della divinizzazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio; la “pratica dei comandamenti” è secondo Evagrio il Pontico il termine tecnico per indicare l’insieme dello sforzo ascetico dell’uomo, la cooperazione della sua libertà all’opera della grazia. E Diadoco di Fotica, utilizzando la distinzione frequente nei Padri tra l’ “immagine” e la “rassomiglianza” di Dio nell’uomo, descrive così i due tempi della divinizzazione:
«Col battesimo della rigenerazione, la santa grazia ci conferisce due beni, uno dei quali supera infinitamente l’altro. Essa ci elargisce il primo immediatamente; infatti ci rinnova nell’acqua stessa e fa brillare tutti i lineamenti dell’anima, cioè l’immagine di Dio, cancellando in noi ogni traccia del peccato. Quanto all’altro, per produrlo essa attende il nostro contributo, quella è la rassomiglianza. Quando dunque l’intelletto, in un sentimento profondo, avrà cominciato a gustare la bontà dello Spirito Santo, dobbiamo sapere che allora la grazia comincia a dipingere, per così dire, la somiglianza sopra l’immagine… così dunque, giorno dopo giorno, il nostro uomo interiore si rinnova nel gusto della carità, e trova nella perfezione di essa la sua pienezza». [4]
Nel quadro di questa dottrina ha il suo posto la Preghiera di Gesù: il mezzo, privilegiato da tutta la tradizione esicasta, di prendere coscienza della presenza di Cristo che abita nei nostri cuori sin dal battesimo; per mezzo suo si compirà la “pratica dei comandamenti”.
2. La sobrietà spirituale e l’invocazione del nome di Gesù
Nei Padri del deserto, il metodo preconizzato per “procurare la propria salvezza”, cioè per raggiungere il pieno sviluppo della vita spirituale, comportava due elementi: da una parte, i “lavori corporali” – digiuni, veglie, austerità di ogni tipo, lavoro manuale – e dall’altra la custodia del cuore, che implicava insieme una incessante lotta spirituale contro “i pensieri” – cioè le cattive suggestioni seminate nel cuore dai demoni – ed una instancabile assiduità nella preghiera.
Consultato sull’importanza a riguardo di questi due elementi, l’Abate Agatone dichiarava:
«L’uomo è simile ad un albero: il lavoro corporale rappresenta le foglie, mentre la custodia dell’interiore è il frutto. Ebbene, la Scrittura dice: Ogni albero che non produce buoni frutti sarà tagliato e gettato sul fuoco. È chiaro dunque che ogni nostro sforzo deve riguardare il frutto, cioè la custodia dello Spirito; tuttavia abbiamo bisogno della coperta e del manto delle foglie: cioè il lavoro corporale». [5]
Sarà quello l’insegnamento dei maestri dell’esicasmo: non cesseranno di raccomandare innanzitutto di stare attenti a se stessi, di entrare nel proprio cuore; o, secondo l’espressione di San Giovanni Climaco, di “circoscrivere l’incorporale (lo spirito) nel corpo”, anziché lasciarsi disperdere fuori.
In effetti il cuore dell’uomo, nel senso biblico del termine, designa la fonte segreta da cui procede la vita spirituale più profonda, fatta di quelle inclinazioni spontanee e di quel senso intimo delle cose che coinvolgono tutto il suo essere. Nel battesimo, quel cuore è stato ricreato dallo Spirito, che ha inciso la sua legge e l’ha penetrato con la sua unzione; in altri termini, c’è iscritta un’attrazione per il bene capace di trionfare su tutte le sollecitazioni del male, e un senso di Dio e dei suoi misteri in virtù del quale il cristiano non dovrebbe più avere bisogno d’insegnamento esterno, poiché quella unzione lo istruisce pienamente (cfr. 1 Jn 2, 27). Ma di fatto, queste energie divine sono in lui solo allo stato germinale e richiedono la cooperazione (sinergia) della grazia e della nostra libertà per espandersi in una direzione divenuta spontanea di tutti i movimenti del nostro psichismo verso Dio (apatia) ed un’esperienza intuitiva e gustosa della Presenza divina (contemplazione, teoria). Inoltre, il battesimo lascia sussistere in noi altre seduzioni, vestigia del peccato, che la grazia ci dà il potere di combattere, che tuttavia restano temibili. Se l’uomo lascia fuggire il suo spirito (o “intelletto” nous) attraverso i sensi del corpo e portarsi senza controllo verso gli oggetti esterni, fornirà nutrimento a quelle tendenze centrifughe, le sveglierà, e si esporrà ad acconsentire ad esse. Per questo non è neppure necessaria la presenza degli oggetti esterni: basta che, con l’aiuto dei demoni, nasca nell’anima il ricordo di oggetti capaci di darci una soddisfazione egoista, e la volontà cederà alla passione suscitata in quella maniera. L’uomo vivrà allora in una sorta di sogno ad occhi aperti, in un mondo irreale dove il bene e il male, il vero e il falso, saranno apprezzati solo in funzione delle proprie tendenze affettive.
A questa perniciosa ebbrezza spirituale, i Padri oppongono la “sobrietà” e la vigilanza già raccomandate da San Pietro in un testo ripreso spesso dai maestri dell’esicasmo: «siate sobri, vegliate. Il vostro avversario, il Diavolo, gira attorno, come leone ruggente, cercando la preda» (1 Pietro 5, 8).
La sobrietà spirituale (nepsis), è pertanto l’attività dello spirito che veglia e lotta per restare padrone di sé durante l’assalto dei pensieri che si sforzano di fargli perdere la sua lucidità interiore. Essa implica innanzitutto un’attenzione senza falle e un discernimento degli spiriti al quale potrà supplire, nei principianti, solo l’aprirsi al Padre spirituale:
«La sobrietà, è una sentinella immobile e perseverante dello spirito sulla porta del cuore, per distinguere sottilmente coloro che si presentano, ascoltare i loro propositi, spiare le manovre dei nemici mortali, riconoscere l’impronta demoniaca che, attraverso l’immaginazione, tenta di devastare il nostro spirito. Condotta validamente, questa operazione ci darà, se lo vogliamo, un’esperienza molto sentita della lotta interiore» [6].
A questa vigilanza, già i Padri del deserto consigliavano di aggiungere la ripetizione di un’invocazione, composta di una sola breve formula (“preghiera monologica”). Con questa pratica si spezzeranno i pensieri contrari alla potenza vittoriosa di Cristo, presente appena invocato; allo stesso tempo, essa permetterà di opporre al “ricordo del male” il “ricordo di Dio”, che nei nostri autori la presa di coscienza di quei lineamenti divini e di quel senso intimo delle cose di Dio scritte nell’anima col battesimo. A questo metodo, Cassiano, benché non conoscesse l’invocazione del Nome di Gesù, dava già una formulazione quasi definitiva:
«Ogni monaco volto al ricordo continuo di Dio deve abituarsi a mormorare interiormente e a ripassare incessantemente nel suo cuore la formula che vi darò, e cacciare con essa la moltitudine di altri pensieri, perché potrà resistere solo se si libera di tutte le preoccupazioni e sollecitazioni del corpo. A questa dottrina siamo stati iniziati dai rari Padri vissuti dopo i più antichi, e la diamo pure solo a rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete dunque tenere costantemente presente nel vostro spirito questa santa formula: Dio mio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi (Ps.69,2). Questo versetto non è stato scelto in tutta la Santa Scrittura senza un motivo. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, si addice perfettamente in tutti gli stati e in tutte le tentazioni. Vi si trova l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di una umile e pietosa confessione, la vigilanza che procede da attenzione e paura continue, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto ad intervenire. Perché chi invoca costantemente il suo Protettore ha la certezza di averlo sempre presente». [7]
In questo eccellente testo ci sono già – ante litteram – i due elementi fondamentali della Preghiera di Gesù: l’umile confessione della nostra miseria, che unicamente ci può aprire alla grazia, e nella quale per questo motivo i Padri del deserto vedevano l’unica via di salvezza e il legame stretto stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.
Introdurre però nella formula della preghiera monologica il nome stesso del Signore Gesù, costituirà un apprezzabile progresso. Diadoco di Fotica, dando al termine di “meditazione” il suo antico significato di rimuginare una parola o una formula, si presenta come uno dei primi testimoni di questa “invocazione del Signore Gesù”, che è anche una “meditazione del suo santo e glorioso Nome”:
«Quando gli chiudiamo tutte le uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che debba soddisfare il suo bisogno di attività. Gli si deve dunque dare come sola occupazione il “Signore Gesù” che risponde interamente al suo fine. Nessuno infatti – è scritto – dice ‘Gesù è Signore’ se non è nello Spirito Santo (1 Cor. 12, 3). Che per tutto il tempo, in maniera esclusiva, contempli quella parola nei propri tesori e non si distragga verso alcuna fantasticheria. Infatti, solo coloro che nella profondità del proprio cuore meditano costantemente quel santo e glorioso nome, possono vedere infine anche la luce del proprio intelletto. Perché, sostenuto dal pensiero con una forte attenzione, esso consuma, in un sentimento intenso, tutta la sozzura che ricopre la superficie dell’anima; e invero, il nostro Dio – è detto – è un fuoco che divora (Dt. 4, 24). A seguire, poi, il Signore sollecita l’anima verso un grande amore della sua gloria. Perché quando persiste, con la memoria intellettiva, nel fervore del cuore: quel Nome glorioso e così desiderabile impianta in noi l’abitudine di amarne la bontà senza che ormai nulla vi si opponga. Eccola dunque la perla preziosa che si può comprare vendendo tutti i propri beni, per godere, una volta scoperta, una gioia ineffabile». [8]
Diadoco, qui, vuole dire che il Nome di Gesù – come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano rimuginare in una meditazione incessante – possiede un’efficacia eccezionale capace di svegliare nel cuore l’amore divino in esso nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con la forza d’urto dell’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito potrà allora “vedere la sua propria luce”, espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza esperienziale dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questo fascino è la manifestazione della presenza divinizzante di Cristo e del suo Spirito nell’uomo.
Più avanti, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo e l’aspirazione dello Spirito Santo che si lascia poco a poco sentire in fondo al cuore:
«Allora effettivamente, l’anima ha la grazia stessa che medita e che grida con essa il “Signore Gesù”, come una madre insegnerebbe al suo bambino la parola “papà” ripetendola con lui fino al punto che, al posto degli altri balbettii infantili, lo avrà condotto all’abitudine di chiamare distintamente il padre, anche durante il sonno. Per questo l’Apostolo dice: “Similmente così, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; perché, quale sia il modo giusto di pregare noi non lo conosciamo, ma lo Spirito stesso intercede sovranamente per noi con gemiti ineffabili (Rm. 8, 23)”». [9]
Questa abitudine della preghiera, che si protrae “anche nel sonno”, è cosa ben diversa di un semplice riflesso automatico creato dalla ripetizione dei gesti. È il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio al quale l’esercizio dapprima laborioso della Preghiera di Gesù conduce, risulta meno da un susseguirsi di gesti quanto piuttosto da uno stato del cuore, da un orientamento, divenuto spontaneo e stabile, verso Dio. È, come dice il Patriarca Callisto in un breve trattato che si classifica tra i più eccellenti della Filocalia,
«un’acqua viva e zampillante che sgorga dall’anima come da una sorgente perenne. Essa abitava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: “Quello che ho dentro non è il fuoco avido della materia, è l’acqua che opera e parla”». [10]
3. Tecnica corporale
Elemento fondamentale del metodo esicasta è dunque la preghiera monologica: «Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!» Formula che indubbiamente, al tempo di Diadoco di Fotica, non era ancora costituita nella sua integralità e che del resto potrà essere abbreviata “secondo le forze e lo stato di colui che prega”; in alcuni, si ridurrà anche al solo Nome di Gesù [11].
Ma alla pratica dell’invocazione bisogna aggiungere alcune condizioni più esterne. La prima – l’unica che la tradizione più antica cita esplicitamente – è il ritiro nella solitudine e nel silenzio, lontano da ogni agitazione mondana. Sicuramente, in epoca molto più tarda, alcuni spirituali si applicheranno a dimostrare che pure i laici possono ricavare grande profitto dalla Preghiera di Gesù. Le origini del metodo restano tuttavia monastiche e contemplative; esso è stato creato da uomini votati a testimoniare l’assoluto di Dio e che vedevano nella solitudine il migliore ausilio all’esichia interiore. Gregorio Palamas descrive così il clima originario della pratica della Preghiera:
«Quando lo spirito si abbandona alla sua propria energia che consiste nel ritorno e nella vigilanza su se stesso, quando, con questa energia, trascende se stesso, potrà unirsi a Dio. Ecco perché chi vuole vivere passionalmente con Dio, fugge la vita soggetta a condanna. Sceglie la vita monacale, estranea al matrimonio, preferisce abitare senza agitazione e preoccupazione nel santuario dell’esichia, lontano da ogni rapporto esterno. Lì, nella misura del possibile, scioglie la sua anima da ogni legame materiale e lega il suo spirito alla preghiera ininterrotta a Dio. Con essa si concentra interamente su se stesso e trova un mezzo nuovo e misterioso per salire al cielo; cosa che si può chiamare l’inafferrabile tenebra del silenzio iniziatore». [12]
Alla vita nel ritiro, la tradizione esicasta ha aggiunto in seguito la pratica di una postura del corpo determinata da un certo controllo del respiro. Le prime descrizioni scritte sistematiche pervenuteci datano del XIII secolo, ma diversi indizi permettono di pensare che quel metodo psicofisico esistesse, almeno in uno stato rudimentale, già in epoca più antica. L’assoluta necessità del controllo di un Padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; le stesse descrizioni letterarie non pretendono del resto supplire all’iniziazione dal vivo, e restano incomplete. Gregorio Palamas, che dovette difendere il metodo contro le facili accuse degli avversari, commenta così:
«Vedi, Fratello: Giovanni [Climaco] ha mostrato che basta esaminare il problema in modo umano, neppure spirituale, per vedere che è assolutamente necessario rimandare o mantenere lo spirito dentro il corpo quando si decide di appartenere veramente a se stessi e di diventare monaco meritando quel nome, secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è fuori luogo insegnare, soprattutto ai principianti, di osservare se stessi e rimandare il proprio spirito dentro se stessi per mezzo dell’inspirazione. … Un uomo sensato non vieterebbe, infatti, a nessuno di ricondurre dentro sé, mediante certi procedimenti, il proprio spirito che ancora non si contempla in sé. Coloro che hanno iniziato da poco questa lotta vedono continuamente il loro spirito fuggire: riunito a fatica; è necessario per loro dunque ricondurlo a sé anche continuamente; nella loro inesperienza, non si rendono conto che nulla al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dello spirito. Per questo certuni raccomandano ad essi di controllare l’andirivieni del respiro e di trattenerlo un poco, al fine di trattenere così lo spirito vigilando sul respiro, finché con l’aiuto di Dio abbiano fatto dei progressi fino a quando abbiano interdetto il loro spirito a tutto ciò che lo circonda e lo abbiano purificato, e che essi possano ricondurlo veramente ad un raccoglimento unificato. Si potrà constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dello spirito, perché l’andirivieni del respiro diventa tranquillo al momento di ogni riflessione intensa, soprattutto in coloro che, in corpo e spirito, si trovano in stato di riposo … Colui che cerca di fare rientrare il proprio spirito in sé per spingerlo non al movimento in linea dritta [verso l’esterno], ma al movimento circolare e infallibile [del ritorno in se stesso], anziché girare gli occhi di qua e di là, non avrebbe maggior profitto a fissarli sul petto o sul proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non solo si raccoglierà così esteriormente su se stesso, finché gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che egli cerca per il suo spirito, ma ancora, dando una tale postura al proprio corpo, manderà verso l’interno del cuore la potenza dello spirito che scende attraverso la vista verso l’esterno». [13]
Questa disciplina corporale si fonda in definitiva sulla concezione biblica della composizione umana. Tutto l’essere deve partecipare alla vita spirituale, poiché è tutto l’essere, corpo e anima che deve ricevere la salvezza. La mentalità biblica, unita all’esperienza tradizionale, aveva reso i maestri spirituali dell’Oriente cristiano attenti a non separare lo spirito dal corpo e a simbolizzare gli atteggiamenti dell’anima con gesti corporali, per permettere “l’integrazione armonica di tutto il nostro essere nella sua ascesi verso Dio”[14]. E checché se ne dica delle esagerazioni e delle semplificazioni pericolose a cui il metodo esicasta ha dato talora adito, essi almeno sapevano che il loro metodo non poteva avere un ruolo puramente regolamentativo di fronte ad una esperienza che rimane essenzialmente un dono della grazia:
«È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, in tutta purezza, senza distrazione, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticata in un luogo tranquillo e buio. Certo che no! I santi Padri, inventando quel metodo, non vi hanno visto che un ausilio, se così si può dire, per raccogliere lo spirito, per ricondurlo a sé dalla sua abituale distrazione e procurare l’attenzione. Grazie a queste disposizioni nasce nello spirito la preghiera costante, pura e senza distrazione… Per te, figlio mio, se desideri trascorrere giorni felici e «vivere in modo incorporale nel tuo corpo» vivi seguendo la regola che ti ho illustrata». [15]
4. Conclusione
La nostra conoscenza sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune per potere determinare se esistono rapporti di influenza tra esso e le spiritualità musulmane, indù o buddiste che predicano pure l’invocazione del Nome divino unita ad una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe nulla in sé che debba sminuire il metodo: le leggi dello psichismo umano sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo trasfigurandolo. E soprattutto, la tecnica è qui sostenuta da una dottrina che ci sembra, nei migliori rappresentanti, autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza attraverso la grazia in Cristo, della resurrezione del corpo, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i “santi Padri neptici” ci hanno trasmesso sulla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile.
Ultimo fondamento del metodo resta la testimonianza del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio: «Perché non c’è sotto il cielo altro Nome dato agli uomini per il quale dobbiamo essere salvati» (Ac. 4, 12).
In un’epoca in cui molti cristiani sono alla ricerca di “una disciplina totale di vita, compresa la corporale, che giovi al loro equilibrio e alla loro fioritura spirituale” [16], non è poco interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio dello sboccio della grazia di Cristo nell’uomo una saggezza umana di cui il nostro Occidente ha perduto il segreto.
Testo originale: La Prière de Jésus dans la Spiritualité Hésychaste © 1995 Monastère Saint Antoine-le-Grand
Traduzione dal francese del prof. G. M. – Palermo 2005
Pubblicato originariamente in: http://oodegr.com/tradizione/tradizione_index/insegnamenti/preghieragesudeseille.htm
[1] La migliore iniziazione in lingua francese alla Preghiera di Gesù è senza dubbio l’articolo di Elisabetta Behr-Sigel, “La Prière de Jésus, ou le mystère de la spiritualité monastique orthodoxe“, in La douloureuse joie (Spiritualité orientale, no 14), Bellefontaine, 1974, p. 81-129.
– L’articolo del Padre Boris Borinskoi, Prière et vie intérieure dans la tradition orthodoxe, Ibid., p. 33-70, è prezioso per collocare la Preghiera di Gesù tra le diverse forme della pietà ortodossa.
– L’antologia di J. Gouillard, Petite Philocalie de la prière du coeur, Paris, 1953, rende accessibili i testi essenziali.
– Gli avvincenti Racconti di un pellegrino russo, trad. J. Laloy, Paris 1953, pieni di linfa tradizionale, illustrano la pratica della Preghiera di Gesù negli ambienti slavi del XIX secolo.
– L’opuscoletto di Un Monaco della Chiesa d’oriente, La Prière de Jésus, Chèvetogne-Seuil, 1963, costituisce una suggestiva iniziazione, non introduce però il lettore nel cuore del metodo.
[2] L’esichia consiste in un genere di vita, caratterizzato dal ritiro nella solitudine, e nell’atteggiamento interiore di un’anima raggiunto nella pace e nel silenzio dei pensieri, rivolta alla contemplazione divina. L’esicasmo è la corrispondente dottrina spirituale, come è stata professata nel monachesimo orientale. Gli scritti dei principali maestri di questa scuola, che si scaglionano dal IV al XIV secolo, sono stati raccolti alla fine del XVIII secolo da Macario di Corinto e Nicodemo l’Agiorita nella Filocalia, che subirà successivamente degli adattamenti slavi, russi e rumeni.
[3] Trad. J. Gouillard, Petite Philocalie, p. 90-91.
[4] Trad. E. Des Places, Sources chrétiennes 5 bis, p. 141-150.
[5] Apophtegmes, Agathon, 8.
[6] Hésychius de Batos, trad. J. Gouillard, Petite philocalie, p. 126.
[7] Conférences, X, 10.
[8] Trad. E. Des Places, Sources chrétiennes 5 bis, p. 119.
[9] Trad. E. Des Places, Sources chrétiennes 5 bis p. 121.
[10] Trad. J. Gouillard, Petite philocalie, p. 296
[11] Cf Calliste et Ignace Xanthopoulos, in J. Gouillard, Petite Philocalie, p. 294.
[12] Grégoire Palamas, Défense des saints hésychastes, trad. J. Meyendorff, Louvain 1959
[13] Grégoire Palamas, Défense des saints hésychastes, p. 90.
[14] Sulla necessità permanente di tale “saggezza del corpo”, vedere le riflessioni del P. P. Regamey in La vie spirituelle, 93 (1955), p. 339-372.
[15] Calliste et Ignace Xanthopoulos, in J. Gouillard, Petitte Philocalie, p. 290
[16] L’espressione è del P. Regamey, nella postfazione al libro di J.-M. Dechanet, La voie du silente, Paris 1963.
È significativo che quest’opera che pretende di “far servire alla vita cristiana certe discipline yoga” (p. 5) e mostrare come fare del proprio corpo “uno strumento più adeguato alla contemplazione e alla vita contemplativa” si sia arricchita nell’appendice, nelle sue ultime edizioni, di una eccellente “Nota sulla preghiera del cuore seguita da alcuni estratti della Filocalia”, dovuta alla collaborazione di J. Gouillard.