San Leone, Papa di Roma
Ai tempi in cui la Chiesa d’Occidente era in comunione con la Chiesa indivisa, il Papa di Roma, in quanto vescovo della capitale dell’impero e patriarca d’Occidente, godeva di una certa priorità nella comunione della Chiesa ed era considerato, da tutti i cristiani, come il custode per eccellenza della tradizione apostolica, facendo da arbitro nelle questioni dogmatiche. Occupando la cattedra romana in una delle epoche più critiche della storia, durante la quale, oltre alla caduta dell’impero d’Occidente, la Chiesa si trovò ad essere minacciata dalle divisioni causate dagli eretici, san Leone seppe proclamare la dottrina della Verità e adoperò tutte le cure possibili per preservare l’unità della santa Chiesa; pertanto esso è venerato, in Occidente come in Oriente, con il nome di san Leone Magno.
Nato a Roma da una nobile famiglia originaria della Toscana, entrò presto a far parte del clero, ricevendo la carica di arcidiacono della Chiesa di Roma, incarico che lo portò a stretto contatto con le problematiche ecclesiali e le controversie dottrinali del tempo. Fu durante una delle sue missioni in Gallia che venne a conoscenza della morte di Papa Celestino e che, a sua insaputa, era stato eletto sul seggio patriarcale da tutto il popolo. Sia durante l’intronizzazione che, in seguito nell’anniversario della stessa, Papa Leone esprimeva, nei sermoni, il timore per il compito che gli era stato affidato, confidando nella sola Grazia divina per il governo della Chiesa.
Arduo era pertanto l’incarico che gli si presentava. L’impero, minacciato dai barbari, era percorso da un rilassamento dei costumi che coinvolgeva persino la Chiesa, scossa dalle eresie. Unendo mirabilmente il rigore alla compassione, san Leone cominciò col risanare la condizione del clero e con il ristabilimento dell’ordine nelle chiese d’Africa e di Sicilia, travolta dall’invasione dei Vandali. All’interno della chiesa d’Illiria, allora dipendente da Roma, consolidò l’autorità del metropolita di Tessalonica e, in Gallia, ristabilì il rispetto per la gerarchia ecclesiastica. Con una sottile perspicacia, mise a nudo le macchinazioni degli eretici manichei, dando così a vescovi e a sacerdoti l’esempio del Buon Pastore con la condotta di una vita irreprensibile dedita totalmente al culto divino e alla stesura di sermoni sobri ed eloquenti. Durante le feste liturgiche edificava il popolo, interpretando i misteri della fede ed esortando a condurre una vita conforme ai principi evangelici.
Non per la sola opera pastorale, san Leone meritò gli onori della Chiesa, essendo ricordato anche per gli interventi in campo dogmatico. Quando, in seguito, agli intrighi di Eutiche, sostenuto dal potente ministro Crisafo, l’empio eretico pronunciò, durante il falso concilio, giustamente chiamato da san Leone Brigantaggio d’Efeso, la condanna di san Flaviano, il Papa, subito informato, si affrettò a condannare l’accaduto e convocò un concilio dei vescovi occidentali, in vista di annullare i decreti dell’iniqua assemblea di Efeso e di ristabilire la retta fede circa la Persona di Cristo. Precedentemente il falso concilio, san Leone aveva indirizzato una lettera al patriarca Flaviano, nella quale, dopo aver esposto la fede della Chiesa nella divinità di Cristo, scriveva:
“Le proprietà delle due nature (divina ed umana) restano integre ma si uniscono in una sola Persona; la maestosità si è unita all’umiltà, la potenza alla debolezza, l’eternità alla mortalità, affinché fosse riscattato il debito da noi contratto; dal momento che ciò era necessario ai fini della salvezza umana, Gesù Cristo, fatto uomo, è morto nella sua natura umana, rimanendo immortale in quella divina (…)
Egli ha preso la forma di servo senza aver parte al peccato, risollevando l’umanità senza diminuire la divinità. Così, la kenosi per la quale l’invisibile si è fatto visibile e per la quale il Creatore ha voluto essere come un mortale, è stato un assenso alla misericordia e non una diminuzione della potenza (…) Il Figlio di Dio è dunque venuto in questo mondo, abbandonando la dimora celeste, ma senza lasciare la gloria del Padre ed è nato in nuovo ordine di cose, con una nuova nascita (…) La Persona è quindi, al tempo stesso, vero Dio e vero uomo, in quanto, in essa, è presente sia l’umanità dell’uomo che la grandezza di Dio (…) La Chiesa vive e si perpetua in virtù della fede che, in Gesù Cristo, l’umanità non sussiste senza una vera divinità, né la divinità priva di una reale umanità.”
Si narra che san Leone scrisse questa lettera ispirato dal santo Spirito, dopo aver trascorso molti giorni nel digiuno, nella veglia e nella preghiera. Ma prima di inviarla, la depose sul sepolcro di san Pietro, scongiurando il Principe degli Apostoli di correggerla da ogni errore che poteva essersi introdotto a causa della debolezza umana. Dopo quaranta giorni, il santo Apostolo apparve a Leone durante la preghiera, dicendogli: “Ho letto e ho corretto!” Infatti, aprendo la lettera san Leone la trovò corretta dalla mano di san Pietro. Tale lettera fu consegnata ai legati perché fosse letta al Concilio di Efeso ma fu ignorata dagli eretici. Tuttavia, quando il pio imperatore Marciano e santa Pulcheria convocarono il Concilio Ecumenico di Calcedonia, fu letta solennemente davanti ai Padri che la acclamarono ad alta voce: “E’ la fede degli Apostoli, la fede dei Padri! Pietro ha parlato per bocca di Leone!”
Mentre in Oriente avvenivano queste cose, in Occidente infuriavano i saccheggi di Attila e le orde unne. Dopo aver seminato morte e distruzione in Germania e Gallia, traversate le Alpi, saccheggiarono la regione di Milano e minacciarono Roma. L’imperatore, il Senato ed il popolo, terrorizzati, supplicarono il Papa di intraprendere una marcia di pace verso il tiranno che faceva tremare il mondo intero. Vestito con gli abiti pontificali, alla testa di un imponente corteo di sacerdoti e diaconi che cantavano gli inni, il santo gerarca si presentò ad Attila, suscitando, sorprendentemente, in lui un timoroso rispetto tanto che accettò di ritirarsi, dietro il pagamento di un tributo annuo. Quando i suoi soldati gli chiesero perché avesse dimostrato questa inusuale clemenza, Attila rispose che aveva visto, accanto al Papa, l’Apostolo Pietro, con in mano una spada e negli occhi una terribile espressione minacciosa. Roma fu così miracolosamente risparmiata, ma poco tempo dopo, il popolo ingrato, immemore dei benefici operati da Dio, ritornò ai suoi disordini consueti. Così il Signore, non potendo più trattenere la collera contro la superba città, permise ai vandali di Genserico, sbarcati in Africa, di occupare la capitale e di saccheggiarla nel 455. Il Papa intervenne nuovamente presso gli occupanti e riuscì ad ottenere la promessa di non massacrare il popolo e di non incendiare gli edifici. Si contentarono di un immenso bottino e di deportare una grande parte della popolazione. Appena la furia si acquietò, san Leone si prodigò a consolare gli scampati, a restaurare le chiese devastate, a ristabilire, per quanto possibile, la vita cristiana in una città che, un tempo gloriosa, era ormai decaduta. Riuscì persino a inviare alcuni sacerdoti e consistenti elemosine a coloro che erano stati deportati in Africa. Il resto della vita fu consacrato all’opera pastorale, in particolare, alla correzione degli abusi nella disciplina ecclesiastica e a sostenere, con tutta la sua autorità, la fede di Calcedonia, minacciata dalla reazione dei monofisiti, particolarmente quelli di Alessandria. Rimise l’anima a Dio nel 461, al termine di un pontificato durato ventun’anni.